Ascolti
avvocato, io e mio marito intendiamo separarci consensualmente; non abbiamo
figli e ciascuno di noi è proprietario di un appartamento da adibire a propria
residenza. Al momento, però, lui non lavora e quindi non ha redditi sufficienti
per mantenersi: è proprio vero che sono obbligata a versargli una somma mensile
a titolo di mantenimento? Inoltre mio marito vorrebbe avviare un’attività
imprenditoriale autonoma, nel tentativo di rendersi quanto prima economicamente
autosufficiente; per fare questo avrebbe necessità di poter disporre,
nell’immediato, di un capitale da investire per la creazione dell’azienda e mi chiede
di versargli l’importo concordato per il mantenimento, invece che mediante
pagamenti mensili, in unica soluzione, mediante il pagamento di una somma da
calcolarsi capitalizzando una rendita di importo pari a quello concordato. Io
potrei anche disporre del capitale necessario a soddisfare tale richiesta, ma
ho sentito dire che questo non è possibile …
Gentile signora, per rispondere alle sue domande in
primo luogo è necessario puntualizzare che la separazione personale dei coniugi,
poiché non determina ancora l’estinzione del rapporto coniugale, non sospende tutti
gli obblighi che essi avevano reciprocamente assunto con il matrimonio; in
particolare, non viene meno l’obbligo di assistenza materiale, espressamente
indicato dall’art. 143 del codice civile. Questo è il motivo di fondo per cui,
nell’àmbito della separazione personale, il coniuge economicamente più forte è ordinariamente
tenuto a corrispondere a quello privo di adeguati redditi propri (e al quale
non possa essere imputata la responsabilità della separazione medesima) una
somma mensile a titolo di contributo al mantenimento, affinché anche il coniuge
privo di redditi possa mantenere un tenore di vita analogo, per quanto
possibile, a quello antecedente la separazione. Questo è quanto prevede la
norma contenuta nell’art. 156 del codice civile.
In merito alla possibilità, per il coniuge
economicamente più forte e previo accordo con l’altro coniuge, di assolvere
l’obbligo di mantenimento mediante la corresponsione “una tantum” di una somma
adeguata, occorre tenere presente che mentre essa è stata espressamente
prevista dall'art. 5 (comma 8°) della legge 898/1970 (Legge sul divorzio) nel
caso del divorzio, non è stata invece inserita nella norma dettata dalla novella dell'art.
156 del codice civile – che pure è posteriore (legge 151/1975) -
per la configurazione dell'assegno di separazione. Proprio in base a tale
discrepanza nella previsione normativa, effettivamente, l’orientamento meno
recente della Dottrina e della Giurisprudenza di merito non ammetteva, in sede
di separazione giudiziale, la possibilità di liquidare “una tantum” il diritto
che ciascun coniuge ha, ex art. 156 c.c., di ricevere dall'altro coniuge quanto
necessario al suo mantenimento, qualora egli non avesse adeguati redditi
propri.
La Cassazione, dal canto suo, aveva ammesso tale
possibilità, a partire quanto meno da una pronuncia del 1972 nella quale era
statuito che: “Qualora tra i coniugi si
convenga, con pattuizione facente parte dell'accordo di separazione
consensuale, che l'obbligazione di mantenimento sia adempiuta, anziché a mezzo
di una prestazione patrimoniale periodica, con l'attribuzione definitiva di
beni, mobili o immobili, o di capitali in danaro, l'esecuzione di tale
attribuzione estingue totalmente e definitivamente l'obbligazione”. (Cass.
25.10.1972, n. 3299).
La Dottrina e la Giurisprudenza più recenti ammettono
la possibilità di liquidare in unica soluzione il diritto al mantenimento del
coniuge separato, sulla base di diversi princìpi giurisprudenziali - oltre a
quello della Cassazione sopra menzionato - ormai consolidati, dai quali si fa discendere,
sul piano logico e su quello strettamente economico, l'ammissione del pagamento
in unica soluzione. L'assenza di una previsione normativa in questo senso
avrebbe la sola conseguenza che, nella separazione giudiziale, il giudice che
ne venisse richiesto non potrebbe disporre un tale regolamento patrimoniale, se
non vi fosse il consenso (anche soltanto tacito) della parte obbligata.
Nonostante quanto appena
affermato, è opportuno tenere presente altresì alcuni princìpi, ugualmente
sanciti dalla Giurisprudenza:
1) I coniugi possono, in sede di separazione, accordarsi nel senso
che il coniuge economicamente più forte versi all’altro, in luogo dell’assegno
mensile, una somma una tantum. Un accordo del genere, però, non esclude
che, ricorrendone le condizioni, il coniuge beneficiario possa chiedere
successivamente l’attribuzione di un assegno di
mantenimento in sede di divorzio;
2) La determinazione dell’assegno di divorzio, secondo la
regolamentazione datane dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, e dalla L. n. 74 del
1987, art. 10 è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, anche per
accordo fra le parti, in sede di separazione;
3) Gli accordi con i quali i coniugi intendano regolare, in sede di separazione, i loro
reciproci rapporti economici in relazione al futuro divorzio con riferimento
all’assegno di mantenimento sono nulli, per illiceità della causa, stante la
natura assistenziale di tale assegno, previsto a tutela del coniuge più debole,
che rende indisponibile il diritto a richiederlo in sede di divorzio. Pertanto,
gli accordi di separazione, dovendosi interpretare secundum ius, non possono
implicare alcuna rinuncia all’assegno di divorzio.
Come già specificato prima, le parti, in sede di
divorzio, possono liberamente concordare che l’obbligo di mantenimento venga
assolto mediante una corresponsione “una tantum”, cioè in
un’unica soluzione. Il tribunale dovrà verificare che l’ammontare dell’assegno
sia equo ed adeguato. Il coniuge che riceve l’assegno “una tantum” non potrà
vantare successivamente alcuna pretesa patrimoniale e, in generale, i coniugi
non potranno successivamente proporre nessuna domanda di contenuto economico.
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