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giovedì 15 dicembre 2016

CONDOMINIO: LEGITTIMA L'ISTITUZIONE DI UN FONDO CASSA PRIMA DELL'ESECUZIONE DEI LAVORI?

Segnalo questo interessante articolo in materia di legittimità di delibere assembleari. Mi sento spesso rivolgere quesiti in merito alla regolarità di delibere tese ad istituire un fondo cassa condominiale in vista di interventi straordinari ancora da eseguire.

http://news.avvocatoandreani.it/notizie-giuridiche/visualizza.php?condominio-legittimo-deliberare-istituzione-fondo-prima-lavori-48b140a65594a91601c2a4e9294bf5a2

martedì 29 novembre 2016

SEPARAZIONE E ASSEGNO DI MANTENIMENTO PAGAMENTO MENSILE O VERSAMENTO “UNA TANTUM”?

Ascolti avvocato, io e mio marito intendiamo separarci consensualmente; non abbiamo figli e ciascuno di noi è proprietario di un appartamento da adibire a propria residenza. Al momento, però, lui non lavora e quindi non ha redditi sufficienti per mantenersi: è proprio vero che sono obbligata a versargli una somma mensile a titolo di mantenimento? Inoltre mio marito vorrebbe avviare un’attività imprenditoriale autonoma, nel tentativo di rendersi quanto prima economicamente autosufficiente; per fare questo avrebbe necessità di poter disporre, nell’immediato, di un capitale da investire per la creazione dell’azienda e mi chiede di versargli l’importo concordato per il mantenimento, invece che mediante pagamenti mensili, in unica soluzione, mediante il pagamento di una somma da calcolarsi capitalizzando una rendita di importo pari a quello concordato. Io potrei anche disporre del capitale necessario a soddisfare tale richiesta, ma ho sentito dire che questo non è possibile …

Gentile signora, per rispondere alle sue domande in primo luogo è necessario puntualizzare che la separazione personale dei coniugi, poiché non determina ancora l’estinzione del rapporto coniugale, non sospende tutti gli obblighi che essi avevano reciprocamente assunto con il matrimonio; in particolare, non viene meno l’obbligo di assistenza materiale, espressamente indicato dall’art. 143 del codice civile. Questo è il motivo di fondo per cui, nell’àmbito della separazione personale, il coniuge economicamente più forte è ordinariamente tenuto a corrispondere a quello privo di adeguati redditi propri (e al quale non possa essere imputata la responsabilità della separazione medesima) una somma mensile a titolo di contributo al mantenimento, affinché anche il coniuge privo di redditi possa mantenere un tenore di vita analogo, per quanto possibile, a quello antecedente la separazione. Questo è quanto prevede la norma contenuta nell’art. 156 del codice civile.
In merito alla possibilità, per il coniuge economicamente più forte e previo accordo con l’altro coniuge, di assolvere l’obbligo di mantenimento mediante la corresponsione “una tantum” di una somma adeguata, occorre tenere presente che mentre essa è stata espressamente prevista dall'art. 5 (comma 8°) della legge 898/1970 (Legge sul divorzio) nel caso del divorzio, non è stata invece inserita nella norma dettata dalla novella dell'art. 156 del codice civile – che pure è posteriore (legge 151/1975) - per la configurazione dell'assegno di separazione. Proprio in base a tale discrepanza nella previsione normativa, effettivamente, l’orientamento meno recente della Dottrina e della Giurisprudenza di merito non ammetteva, in sede di separazione giudiziale, la possibilità di liquidare “una tantum” il diritto che ciascun coniuge ha, ex art. 156 c.c., di ricevere dall'altro coniuge quanto necessario al suo mantenimento, qualora egli non avesse adeguati redditi propri.
La Cassazione, dal canto suo, aveva ammesso tale possibilità, a partire quanto meno da una pronuncia del 1972 nella quale era statuito che: “Qualora tra i coniugi si convenga, con pattuizione facente parte dell'accordo di separazione consensuale, che l'obbligazione di mantenimento sia adempiuta, anziché a mezzo di una prestazione patrimoniale periodica, con l'attribuzione definitiva di beni, mobili o immobili, o di capitali in danaro, l'esecuzione di tale attribuzione estingue totalmente e definitivamente l'obbligazione”. (Cass. 25.10.1972, n. 3299).
La Dottrina e la Giurisprudenza più recenti ammettono la possibilità di liquidare in unica soluzione il diritto al mantenimento del coniuge separato, sulla base di diversi princìpi giurisprudenziali - oltre a quello della Cassazione sopra menzionato - ormai consolidati, dai quali si fa discendere, sul piano logico e su quello strettamente economico, l'ammissione del pagamento in unica soluzione. L'assenza di una previsione normativa in questo senso avrebbe la sola conseguenza che, nella separazione giudiziale, il giudice che ne venisse richiesto non potrebbe disporre un tale regolamento patrimoniale, se non vi fosse il consenso (anche soltanto tacito) della parte obbligata.
Nonostante quanto appena affermato, è opportuno tenere presente altresì alcuni princìpi, ugualmente sanciti dalla Giurisprudenza:
1)     I coniugi possono, in sede di separazione, accordarsi nel senso che il coniuge economicamente più forte versi all’altro, in luogo dell’assegno mensile, una somma una tantum. Un accordo del genere, però, non esclude che, ricorrendone le condizioni, il coniuge beneficiario possa chiedere successivamente l’attribuzione di un assegno di mantenimento in sede di divorzio;
2)     La determinazione dell’assegno di divorzio, secondo la regolamentazione datane dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, e dalla L. n. 74 del 1987, art. 10 è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, anche per accordo fra le parti, in sede di separazione;
3)     Gli accordi con i quali i coniugi intendano regolare, in sede di separazione, i loro reciproci rapporti economici in relazione al futuro divorzio con riferimento all’assegno di mantenimento sono nulli, per illiceità della causa, stante la natura assistenziale di tale assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo in sede di divorzio. Pertanto, gli accordi di separazione, dovendosi interpretare secundum ius, non possono implicare alcuna rinuncia all’assegno di divorzio.
Come già specificato prima, le parti, in sede di divorzio, possono liberamente concordare che l’obbligo di mantenimento venga assolto mediante una corresponsione “una tantum”, cioè in un’unica soluzione. Il tribunale dovrà verificare che l’ammontare dell’assegno sia equo ed adeguato. Il coniuge che riceve l’assegno “una tantum” non potrà vantare successivamente alcuna pretesa patrimoniale e, in generale, i coniugi non potranno successivamente proporre nessuna domanda di contenuto economico.
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lunedì 21 novembre 2016

LA CASA BIANCA HA UN NUOVO INQUILINO! E SE AL TERMINE DELLA LOCAZIONE CI SONO DANNI ALL’IMMOBILE?

Ascolti avvocato, il mio inquilino mi aveva comunicato regolare disdetta del contratto e, alla data di cessazione, ci siamo trovati nell’immobile per la restituzione delle chiavi. Non le dico! Senza la mobilia, ho potuto vedere lo stato in cui erano ridotte le pareti dell’appartamento: ovunque aloni degli arredi precedentemente appoggiati ai muri; in cucina e in bagno c’erano i buchi dei ganci ai quali erano stati appesi pensili e mensole. Un vero disastro! Eh, ma io non sono il tipo che si fa mettere i piedi in testa da nessuno, sa!? Ho rifiutato la restituzione delle chiavi e pretendo il risarcimento delle spese necessarie per riportare l’appartamento nello stato originario: quando glielo avevo consegnato era un gioiellino, anche se nel contratto non eravamo stati a specificare niente. Ho fatto bene a rifiutare le chiavi, vero avvocato?
Egregio signore, capita spesso che il proprietario di un immobile concesso in locazione, al termine del rapporto contrattuale (magari protrattosi per molti anni), provi una delusione assai cocente dal raffronto tra il ricordo delle condizioni in cui si trovava l’immobile al momento della consegna al conduttore e le condizioni in cui esso viene restituito. Tuttavia, prima di assumere posizioni di fermo contrasto avverso quelle che potrebbero sembrare violazioni dei propri diritti, è bene valutare attentamente le circostanze di fatto, alla luce delle norme dettate dall’Ordinamento.
Infatti, a norma dell’art. 1576, I comma, c.c.: “Il locatore deve eseguire, durante la locazione, tutte le riparazioni necessarie, eccettuate quelle di piccola manutenzione, che sono a carico del conduttore”.
Inoltre, a norma dell’art. 1590 c.c.: “Il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l’ha ricevuta, in conformità della descrizione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall’uso della cosa in conformità del contratto In mancanza di descrizione, si presume che il conduttore abbia ricevuto la cosa in buono stato di manutenzione. Il conduttore non risponde del perimento o del deterioramento dovuti a vetustà. Le cose mobili si devono restituire nel luogo dove sono state consegnate.”.
Sulla base di quanto previsto da queste due norme la giurisprudenza ha stabilito che, ove l’immobile offerto in restituzione dall’inquilino si trovi in stato non corrispondente a quello descritto dalle parti all’inizio della locazione, ovvero - in mancanza di descrizione - si trovi comunque in cattivo stato locativo, il rifiuto del locatore di ricevere la consegna dell’immobile è legittimo solo laddove il conduttore abbia arrecato all’immobile gravi danni o effettuato innovazioni non consentite, di un rilievo tale che per la loro riparazione sia necessario l’esborso di somme rilevanti: in tal caso al locatore spetta altresì il pagamento delle mensilità di canone fino a quando quelle somme non siano state corrisposte dal conduttore.
Se invece la cosa locata risulti deteriorata per non avere l’inquilino adempiuto all’obbligo di eseguire le opere di piccola manutenzione durante il corso della locazione, e si tratti di rimediare piccoli danni che non alterano la consistenza e la struttura della cosa né implicano un’attività straordinaria ed economicamente gravosa (es. vetri rotti, maniglie difettose), l’esecuzione delle opere occorrenti per il ripristino dello status quo ante rientra nel dovere di ordinaria diligenza cui il locatore è tenuto per non aggravare il danno, ed il suo rifiuto di ricevere la cosa è conseguentemente illegittimo, fatto salvo comunque l’eventuale diritto al risarcimento danni per violazione dell’art. 1590 del codice civile. A tale ultimo proposito, tuttavia, occorre prestare particolare attenzione al fatto che l’inquilino è tenuto a risarcire i danni per eventuali deterioramenti e/o difformità rispetto alle condizioni in cui l’immobile era stato consegnato, esclusivamente nell’ipotesi in cui:
  1. Risultino effettivamente provate in modo inconfutabile le esatte condizioni in cui l’immobile si trovava al momento della consegna all’inquilino (es. perché riportate nel contratto di locazione, meglio se corredato da fotografie allegate per formarne parte integrante) ovvero nel contratto siano state esplicitamente indicate le condizioni in cui l’immobile debba essere comunque riconsegnato (es. tinteggiatura pareti);
  2. Deterioramenti e/o difformità non siano conseguenti al normale utilizzo del bene per gli scopi indicati nel contratto (e a tal riguardo la giurisprudenza di merito si è pronunciata più volte nel senso che l’infissione nelle pareti di chiodi o ganci per appendere quadri od elementi di arredo, costituisca un utilizzo normale del bene immobile rispetto allo scopo abitativo per cui il contratto di locazione era stato stipulato).
Alla luce di quanto sopra, emerge in primo luogo l’opportunità di consultare, prima di stipulare un contratto di locazione, un legale esperto in materia, il quale potrà suggerire l’adozione di specifiche clausole utili a precisare le richieste del locatore in merito alle condizioni di restituzione dell’immobile al termine della locazione ed evitare future contestazioni. In ogni caso, la consulenza di un legale potrà evitare – nell’ipotesi in cui nulla sia stato specificato nel contratto di locazione – che il proprietario assuma comportamenti non legittimi al momento della restituzione del bene, pregiudicando magari la possibilità di ottenere, successivamente, il soddisfacimento dei propri diritti.


domenica 13 novembre 2016

SE L’INQUILINO NON PAGA L’AFFITTO E LASCIA L’IMMOBILE POSSO CAMBIARE LA SERRATURA?


Ascolti avvocato, l’inquilino del mio immobile, moroso da diversi mesi, se ne è andato senza dire nulla e non riuscivo più a contattarlo, nemmeno telefonicamente. Il contratto prevede la risoluzione automatica in caso di mancato pagamento anche di una sola rata ed io, quando gli avevo consegnato le chiavi dell’appartamento me ne ero tenuta una copia per ogni evenienza. Visto che il contratto prevedeva la risoluzione immediata in caso di morosità, sa cosa ho fatto? Sono entrato nell’immobile con le chiavi di riserva ed ho fatto cambiare la serratura, così ho risparmiato i costi dello sfratto (mi scusi se glielo dico eh!) e sono rientrato immediatamente in possesso del mio immobile. Che ne dice, non sono stato furbo!?
Comprendo benissimo il disappunto che può provare il proprietario di un immobile concesso in locazione nel subire il comportamento del conduttore il quale, oltre a rendersi moroso nel pagamento delle mensilità di canone e delle spese, ometta altresì di restituire il possesso del locale, magari senza nemmeno più utilizzarlo.
Tuttavia, non posso fare a meno di evidenziare che le suddette circostanze non consentono al locatore di riprendersi autonomamente la detenzione del fabbricato. Anche se nel contratto è prevista la risoluzione di diritto in caso di mancato pagamento del canone, occorre comunque che la risoluzione contrattuale sia dichiarata dal Tribunale. Sarà pertanto necessario chiedere al Giudice la convalida dello sfratto per morosità e successivamente, ottenuta l’ordinanza di convalida, riprendere l’immobile con la presenza dell’ufficiale giudiziario, mediante l’apposita procedura per l’esecuzione dell’obbligo di rilascio sancito dal Giudice.
Riprendersi il possesso dell’immobile direttamente, ovvero senza seguire questa procedura o senza un accordo con il conduttore, significa commettere un reato. Sul tema, la Cassazione ha infatti precisato più volte che la sostituzione della serratura (con ingresso all’interno dei locali) configura il reato di “violazione di domicilio”, previsto dall’art. 614 cod. pen. che dice testualmente: “Chiunque s'introduce nell'abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s'introduce clandestinamente o con l'inganno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Alla stessa pena soggiace chi si trattiene nei detti luoghi contro l'espressa volontà di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa.
La pena è da uno a cinque anni e si procede d'ufficio, se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, ovvero se il colpevole è palesemente armato.
Alla luce di quanto sopra, sconsiglio - a coloro che si trovino in situazione analoga - di tenere il comportamento riferito nel quesito e consiglio, invece, di consultare, prima di assumere ogni decisione, un legale di fiducia con il quale concertare le opportune strategie; se siete preoccupati per la spesa da affrontare per l'azione giudiziale, chiedete piuttosto un preventivo dei costi ipotizzabili e magari concordate con il legale modalità e termini per i pagamenti, sulla base delle successive fasi procedurali che si dovranno affrontare.